"Non erano annegati, i naufraghi del
TITANIC potevano essere salvati!"
Alle 2:30 del 15 aprile 1912 il TITANIC giaceva sul fondo
dell'Oceano Atlantico a 400 miglia a largo di Terranova. La Carpathia,
l'unica nave che poteva giungere in soccorso in un tempo ragionevole,
arrivò dopo un'ora e cinquanta minuti. Il suo equipaggio fece il
possibile per recuperare, fra i naufraghi, quelli che diedero qualche segno
di vita, ma i 1518 corpi che galleggiarono a pelo d'acqua, sospesi nei
giubbotti di salvataggio, furono dati per
morti.
Un bilancio pesantissimo: su 2223 passeggeri, soltanto 705 riuscirono a
mettersi in salvo sulle 16 scialuppe ed i 4 canotti di salvataggio di
cui disponeva la nave. Ma quanti dei naufraghi, dati frettolosamente per
annegati, avrebbero potuto salvarsi?
Solleva il dubbio, riaprendo una polemica che ha percorso tutto il
secolo scorso, una lettera, firmata da un cittadino americano, comparsa
sulla rivista inglese di medicina The Lancet. Secondo l'anonimo
scrivente, che non si qualifica come medico (forse il figlio di un
superstite?), ma al quale l'autorevole rivista dà credito con questa
pubblicazione, tutti i passeggeri che finirono in acqua e che si infilarono il giubbotto di salvataggio, quindi, non potevano annegare.
Certo è che rimasero nell'acqua gelida, a due gradi sottozero, per quasi
due ore, ma, precisa la lettera, studi pubblicati in anni recenti hanno
rivelato che è possibile sopravvivere all'ipotermia per quaranta minuti.
Si poteva fare qualcosa, tirarli fuori dall'acqua e cercare di
riscaldarli?
Tutto è possibile, ma a quell'epoca le nozioni sull'ipotermia e le
pratiche di rianimazione erano rudimentali. Non dimentichiamo che
senz'altro una buona parte delle persone cadute in mare poteva aver
subito traumi tali da far perdere la coscienza. Fu probabile, perciò,
che parecchi naufraghi annegarono, nonostante il giubbotto di
salvataggio.
Gli studi citati nella lettera pubblicata si riferiscono a pochissimi
casi eccezionali. Con le capacità di rianimazione cardio-respiratoria
attuali avremmo, forse, potuto salvare alcuni naufraghi, immersi in
acqua ad una temperatura micidiale. Ma bisognava soccorrerli nell'arco
di un quarto d'ora, al massimo venti minuti. Oltre questo limite,
subentra la morte per arresto cardiaco e non c'è niente da fare.
Ma, come raccontò Lawrence Beesley, un superstite inglese passeggero di
seconda classe, in un documento pubblicato a Boston lo stesso anno della
tragedia, egli disse di aver sentito, dalla sua scialuppa di salvataggio, le urla di
disperazione dei naufraghi per molto tempo. L'ultimo grido arrivò alle
sue orecchie circa quaranta minuti dopo l'inabissamento del TITANIC.
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