L'analisi dell'acciaio

 


Dettagli dello scafo del TITANIC.



Sei anni dopo la spedizione di Ballard, nel 1991, una squadra di ricercatori ed ingegneri visitò il punto del naufragio. Li comandavano Steve Blasco, geologo marino canadese.
Per l'occasione vennero usati un paio di batiscafi in grado di resistere a grandi profondità per 20 ore e più. In una delle loro immersioni, gli esperti avevano recuperato un pezzo dello scafo del diametro di circa 25 centimetri, spesso quasi 2 centimetri e mezzo ed aveva tre fori per i rivetti, ognuno largo circa 3 centimetri. Una volta portato in laboratorio, il pezzo venne accuratamente ripulito. I ricercatori trovarono persino tracce della vernice originale. Dopo tanto tempo trascorso sott'acqua, quel pezzo di acciaio avrebbe dovuto subire una forte corrosione. Perché non era accaduto?
"Questo è in qualche modo dovuto alla temperatura ed alla pressione" afferma Blasco. "Non è granché come spiegazione ma per ora è l'unica che abbiamo". Più importanti per i ricercatori furono le condizioni dei bordi del frammento: dentellati, praticamente spezzettati, quasi si fosse trattato di porcellana scheggiata. Eppure l'acciaio navale di alta qualità era molto duro e gli esperti di metallurgia lo sanno. Cos'era accaduto?
Tre anni più tardi, nel laboratorio di Halifax, il pezzo del TITANIC fu su un tavolo da lavoro. La sua vernice, vecchia di 80 anni, era marrone a chiazze, con macchie sottostanti di ossido di piombo, ora bianco rosate. Un bordo era dritto e lucido; da lì fu tagliata una striscia metallica per ricavarne altre delle dimensioni di una sigaretta. Queste striscioline servirono per le prove successive. Una fu montata su un apparecchio per il "charpy test".
Nel laboratorio si trovavano Steve Blasco e Duncan Ferguson, ingegnere meccanico, che partecipò allo studio. L'esperto di metallurgia che manovrò lo strumento "charpy" fu Ken Karis Allen, specialista in fratture e corrosione. Il test servì a misurare la fragilità del metallo mediante un pendolo. Il metodo fu assai semplice: si assicurava una striscia del frammento in un morsetto d'acciaio ed il pendolo, di circa 30 chilogrammi, oscillava e si abbatteva sul campione, talvolta rompendolo. Il punto di contatto, a strumenti elettronici, documentano il vigore dell'impatto al micro secondo.
Karis Allen esaminò due strisce: una dell'acciaio utilizzato per le navi moderne; l'altra, di acciaio del TITANIC. Entrambe furono immerse in un bagno di alcol raffreddato sottozero, in modo da simulare la temperatura dell'acqua nella notte del naufragio. Trasferita la striscia nuova dal bagno al morsetto (operazione questa da compiere in cinque secondi), si iniziò l'esperimento.
Il pendolo oscillò e si fermò con un tonfo sordo. Il campione si piegò a "V". Ora venne ripetuto il processo con l'altro campione. Questa volta il pendolo colpì con un suono acuto, a malapena rallentò, e proseguì la sua corsa mentre la striscia, spezzata in due, schizzò via e finì contro un cestino di metallo.
I tracciati al computer e le analisi successive lo confermeranno: l'acciaio adoperato per il TITANIC era eccezionalmente fragile. Quando la nave colpì l'iceberg, le lastre dello scafo non si limitarono a piegarsi in dentro: si ruppero!
Il pezzo del TITANIC non dovette la sua fragilità alla sosta prolungata sul fondo dell'oceano: il campione era stato ricavato da uno spezzone trovato nel cantiere dove venne costruito il TITANIC. L'acciaio era già fragile in quella fase, e nell'acqua ghiacciata lo diventò ancora di più. "Per rendere altrettanto fragile l'acciaio moderno di alta qualità" spiegò l'esperto in fratture Karis Allen "dovrei abbassare la sua temperatura a -60° o -70° C". A quei tempi non capirono il concetto di frattura per fragilità, non seppero che un alto contenuto di zolfo rendeva fragile l'acciaio. E quello del TITANIC fu alto perfino per quell'epoca. "È pieno di inclusioni di solfito. Oggi una qualità del genere non potrebbe mai uscire da un cantiere".
Alla luce di quanto emerso da questa analisi sull'acciaio del TITANIC e dalle ricerche condotte sul relitto, William Garzke, ingegnere navale della Gibbs & Cox Inc. di New York, cercò di ricostruire i fatti di quella notte. Ore 23:40 del 14 aprile. La nave sfiorò l'iceberg. Se avesse contenuto meno zolfo, l'acciaio dello scafo si sarebbe piegato e deformato, ma non spezzato. Dopo che i rivetti saltarono, le giunture si sarebbero aperte lasciando entrare l'acqua, ma l'acciaio avrebbe assorbito grandi quantità di energia. La nave avrebbe potuto rallentare di colpo, forse perfino rimbalzare. Probabilmente il TITANIC sarebbe rimasto ferito a morte, ma avrebbe resistito a galla fino all'arrivo dei soccorsi. Invece, il ghiaccio che strisciò contro la murata spezzò lo scafo. Quei primi sei compartimenti si allagarono, e l'acqua sommerse le paratie.
Dalle 2 alle 2:20 del 15 aprile il TITANIC si inclinò di circa 45 gradi e la poppa salì fino all'altezza di un edificio di 20 piani. La pressione al centro della nave raggiunse le 15 tonnellate per centimetro quadrato. All'improvviso, in superficie o appena sotto, la sovrastruttura si ruppe e contemporaneamente al centro della nave lo scafo cedette. La chiglia si piegò, le lastre inferiori si deformarono. Secondo Garzke, quando le gelide acque del mare inondarono la nave si assistette a "un cedimento spettacolare, con la frammentazione dell'acciaio delle strutture superiori".
Il rombo cupo udito dalle scialuppe probabilmente fu provocato dall'acciaio che si frantumò.
La prua poi si staccò dalla poppa. La poppa sembrò tornare a posto, poi di colpo assunse una posizione quasi verticale, e infine scomparve sott'acqua. Poco sotto la superficie, le sezioni che contevano ancora aria cedettero alla pressione dell'acqua: un'implosione disseminò ovunque tonnellate di rottami.


 
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